Opere d'Arte nel Santuario
*Abside del Tempio *Altare e Trono alla Vergine *Angeli del Cepparulo *Assida o Cona *Cancelli della Balaustra *Deposizione di Gesù *Dipinti dei Pennacchi e della Crociera *Gli ornati dell'interno del Tempio *I marmi colorati dell'Altare e del Trono *Il silenzio di Gesù *Il velo dinanzi al quadro prodigioso *La Cupola di Angelo Landi *La Custodia - Tabernacolo o Sacro Ciborio *La Maestra *La Volta Maggiore del Santuario *Le quindici lampade perpetue davanti al Trono *Maria Assunta nella gloria del Paradiso *Nuova porta di bronzo 2023 *Statua di Francesca Saverio Cabrini
*Cancelli della Balaustra
«Ricchezza di metallo, rara maestria di disegno, fine lavoro di cesello, renderanno i cancelli della balaustrata una meraviglia di arte e di buon gusto, novello titolo di onore per l’arte sacra napoletana».
Così, nell’aprile del 1891, nelle pagine del periodico da lui stesso fondato, "Il Rosario e la Nuova Pompei",
Bartolo Longo annunciava ai fedeli la realizzazione, tra le altre grandi opere, del cancello che avrebbe «sbarrato il vano centrale della balaustrata».
Il Fondatore, infatti, volle completare la balaustra del presbiterio chiudendone il vano centrale con due cancelli di grande valore artistico, lo stesso valore delle opere già realizzate.
Creati su progetto dell’Architetto Giovanni Rispoli, i cancelli, realizzati in bronzo e argento dalla ditta Alfano, vennero inaugurati nel 1891.
Ancora oggi, anche alla luce dei recenti lavori di restauro conservativo della Basilica mariana, iniziati nel 2009, i visitatori ne possono ammirare la ricchezza dei metalli, la maestria dei disegni e la realizzazione artistica su disegno dello scultore
Salvatore Cepparulo. La particolarità dei cancelli, che chiudono il vano centrale dell’elegante balaustra dai finissimi marmi, il Serrangolino Bieyodi e il Rosa d’Ouvard, sono le cinque statue che rappresentano, da sinistra, la Carità, la Speranza, la Religione, la Purità e la Fede.
Insomma, la stupenda balaustra, opera di grande valore per i pregevoli e rari marmi in cui era stata realizzata, meritava "degno suggello".
E tale fu, tanto che il Beato Bartolo Longo, felice e orgoglioso di quell’opera, ne parlava spesso nei suoi scritti, definendolo «monumento di arte per la classica purezza e l’alto magistero del disegno, per la mistica espressione dell’insieme purissimo, sposato all’ispirazione dell’ideale religioso».
(Autore: ■ di Daria Gentile)
La Balaustra del Presbiterio
Una meraviglia di arte e di buongusto
Il 7 maggio del 1891 venivano benedetti i cancelli della balaustra del presbiterio. Su progetto dell’architetto G. Rispoli e realizzati dalla ditta Alfano, si aggiungeva un’altra gemma al complesso del santuario. Ancora oggi i visitatori possono constatarne la ricchezza dei metalli, la maestria dei disegni e l’artistica realizzazione.
"Ricchezza di metallo, rara maestria di disegno, fine lavoro di cesello, renderanno i cancelli della balaustra una meraviglia di arte e di buon gusto, novello titolo di onore per l’arte sacra napoletana". Siamo nell’aprile del 1891, nel Periodico, Bartolo Longo, annunzia ai fedeli che, tra le altre grandi e costose opere, è stato realizzato anche il cancello "che sbarra il vano centrale della balaustra, nella quale l’eleganza del disegno è pari al pregio della materia, e che si può, con vantaggio, paragonarsi alle più belle che si ammirano in Roma ed altrove".
Lo splendore dei finissimi marmi, impiegati nella costruzione della stupenda balaustra: il Serrangolino Bieyodi ed il Rosa d’Ouvard, meritava un degno suggello: un gioiello prezioso di bronzo e d’argento.
Bartolo Longo già da lungo tempo aveva pensato di completare la balaustra del presbiterio chiudendo il vano centrale con due cancelli che per il valore artistico, la ricchezza del materiale e la finezza del disegno compendiassero quanto di magnifico e di sontuoso si era già realizzato: la sistemazione del pavimento dell’Abside, l’erezione dell’Altare e del Trono alla vergine, il Ciborio, squisitissimo lavoro di cesello.
Don Bartolo ama parlarne (e spesso) di quel cancello; eccolo felicissimo esclamare: "Monumento di arte per la classica purezza e l’alto magistero del disegno, per la mistica espressione dell’insieme purissimo, sposato all’ispirazione dell’ideale religioso"; in vena di teorizzare, si improvvisa esteta ed, a parer nostro, coglie essenziali definizioni dell’arte. "Ora l’arte, io dico, deve servire alla pietà, non deve imperare alla pietà". E con maggiore acutezza si dimostra d’attualità in questo passo: "L’arte, anelito dello spirito umano verso l’ideale, quando incarna un tipo mistico soprannaturale, diventa fonte di educazione morale, di sentimento religioso e di un godimento estetico purissimo, che conforta sempre più e rinsalda gli abiti della virtù e l’ispirazione al bene. Cotesti effetti produce in noi, e in quanti qui traggono, l’andare osservando lo splendore degli altari e delle decorazioni che rivestono questa novella Arca del Signore".
La data del 7 maggio 1891, programmata per la grande festa di dedicazione del Tempio alla Vergine del Rosario, non era lontana; notevoli impegni di spesa erano stati assunti, era urgente e necessario impiegare tutte le risorse finanziarie per approntare ogni cosa al fine di rendere solennissima la cerimonia.
Intanto Don Bartolo riceve una lettera; la riassumiamo: "Pregiatissimo signor Avvocato, uscendo dal Santuario, fu osservato da alcuni visitatori che era spiacevole vedere quei due sgabelli di legno che fanno da sportelli alla Balaustra". Ritornato a Napoli ebbe un’idea. Qual è la famiglia, nella quale non trovasi dimenticato in qualche cassetto, in qualche fondo di mobile, qualche oggetto prezioso fuori uso; come a dire cucchiai o forchette rotte, montature di orecchini non più servibili, qualche braccialetto che non è più in moda? Ora, se l’egregio signor Bartolo Longo, facesse un appello a tutte le famiglie, vedremmo, in brevissimo tempo in preziosi metalli pure gli sportelli della Balaustra. Le partecipo l’idea, certo che, se la Madonna vuole che diventi un fatto, gli ispirerà che diventi sua". Napoli, 18 luglio 1889. Luigi D’Auria fu Tito.
La lettera fu inserita nel quaderno di luglio 1889 del Periodico "e subito avemmo ad avvederci che, quando si tratta di fare onore alla benigna Vergine dei miracoli, tutte le proposte sono in un tempo medesimo, gradite, approvate ed eseguite".
Nel quaderno del Periodico di marzo 1890, il Fondatore dà ai fedeli, come di consueto, il puntuale resoconto dei lavori che si progettano, si eseguono, sono già portati a compimento. A pagina 98, tra l’altro, leggiamo: "Si è consegnato il disegno ed il prezioso metallo per la costruzione dell’artistico cancello della Balaustrata al Presbiterio". Il cancello fu concepito e disegnato dall’architetto Giovanni Rispoli di Napoli, autore di tutta la decorazione e direttore dei lavori che si eseguivano nel Tempio e fuori di esso; sono suoi i disegni del Ciborio, sarà suo il progetto ed il disegno della Facciata Monumentale. I modelli furono eseguiti dallo scultore Cavalier Salvatore Cepparulo, valentissimo artista, autore dei cinque angeli di bronzo che ornavano il primitivo altare; Giuseppe Alfano, orafo, incisore finissimo, fuse, con perizia ineguagliabile, il bronzo e l’argento. Dell’Alfano riportiamo un breve stralcio di una lettera indirizzata a Bartolo Longo datata 15 luglio 1893; in essa è contenuta qualche notizia utile ed illuminante circa il lavoro eseguito dall’artista. "Ill.mo Comm/re Avv/to Bartolo Longo. Per mettere in completo assetto il cancello della Balaustrata con quei lavori di completamento, che ne rendono facile il maneggio ed il movimento, cosa che non si potette da principio fare perché la Signoria Vostra, ben si ricorderà, che questo speciale lavoro fu da me accettato per solo riguardo a voi, dappoiché quanti lo potevano eseguire tutti lo ricusarono per il brevissimo tempo di soli sessanta giorni.
La Signoria Vostra ben comprese, allora, i sacrifici sopportati dalla mia officina per poter arrivare a tempo a far figurare voi per una promessa che avevate, di far trovare a posto questo eccezionale lavoro".
E così, grazie alla generosità ed al sacrificio della ditta Alfano, fu mantenuta la promessa fatta ai fedeli: i cancelli furono benedetti il giorno 7 maggio 1891, festa solennissima della dedicazione del Santuario di Pompei.
Nel programma per le feste di maggio di quell’anno, Bartolo Longo indugia nella descrizione minuziosa e puntuale della bella opera d’arte. La riportiamo come prosa di ineguagliabile efficacia.
"I cancelli che chiudono la balaustrata del Presbiterio sono stati oggetto di serio studio.
Ai comuni e troppo noti cancelli metallici, più o meno rabescati e spesso barocchi, si è voluto sostituire un concetto prettamente artistico. Se si sia raggiunto lo scopo lo lasciamo giudicare al pubblico quando visiterà il Santuario nelle feste del prossimo Maggio o di poi.
I cancelli degni della balaustrata, bellissima anch’essa e di gran valore per i pregevoli e rari marmi, richiameranno alla mente, ne siam sicuri, l’altro lavoro che adorna il Maggiore Altare, cioè la custodia monumentale. Nel lavoro di un cancello sta svolto un concetto dettato dal genio dell’arte.
Cinque virtù, la religione, la fede, la carità, la Speranza e la Purità, rappresentate da cinque statue in altrettante nicchie, si mostrano nel fronte principale dei due cancelli, e dicono chiaramente quanto di grande e sublime si raccoglie nel prodigioso ambiente. Una architettura solida, condotta con risalti e cavi, inquadra la duplice imposta.
Le cinque nicchie, una grande nel mezzo, e quattro laterali che accolgono le statue, formano la parte nobile dell’architettura, e però a queste si è dato una conveniente ricchezza.
Intermezzano le nicchie otto colonne a rilievo, di finissimo ed accurato cesello, con basi attiche e capitelli corinti, e con ornati tanto nel basso quanto nell’alto. Di esse, sei colonne formano binato alla grande nicchia centrale; tutte sono sorrette da piedistalli quadrati poggianti su di un largo plinto modanato, che forma ricorrenza della balaustrata di marmo.
La nicchia centrale poi, che racchiude la maggiore statua, cioè quella della Religione, è coronata nella parte alta da due figure allegoriche.
Le quattro nicchie laterali hanno in alto fregi allegorici ed ornati.
Sottostanno alle medesime altrettante piccole nicchie circolari, ciascuna delle quali porta il simbolo di uno degli Evangelisti. Fra i piedistalli delle colonne lo spazio è spartito in quadri con fregio ad alto rilievo.
Sulle otto colonne che formano risalto, corre la trabeazione corintia di massima ricchezza con modiglioni e dentelli. Nei quadri del fregio vi hanno ornati cesellati con teste di angeli e palme. La parte superiore è terminata dal frontone, nel timpano del quale vagamente spicca una conchiglia con fregi.
Sui lati inclinati del frontone stesso si adagiano due severe figure rappresentanti la Fortezza l’una, la Giustizia l’altra. Sotto le quattro colonne estreme, fra le nicchie piccole, un rilievo termina e corona il cornicione.
Il materiale scelto è il più perfetto bronzo, e la lega è riuscita tanto felice da non abbisognare di pulimento alcuno né di altre dorature.
Il disegno e la direzione è del medesimo architetto Rispoli; l’esecuzione della Ditta Alfano, la quale ha saputo rispondere perfettamente alle esigenze della direzione e all’importanza eccezionale del lavoro, che accoppia così ad un concetto ardito una esecuzione inappuntabile".
(Autore: Nicola Avellino)
Il Santuario è stato destinatario di due donazioni quanto mai significative per il valore artistico e religioso. Gli eredi dello scultore Francesco Pesce "Accettura (Pz) 1908 - Firenze 1992) sigg. Molinari-Zetti hanno generosamente offerto un gruppo scultoreo in bronzo rappresentante la Deposizione di Gesù dalla Croce.
Questa non è l’unica opera d’ispirazione religiosa eseguita dallo scultore F. Pesce, forse l’ultima in ordine di tempo, ma la più imponente per volume e la più "ispirata" per comunicazione di sentimenti.
Volti paesani, di un mondo lontano non più disprezzato, anzi desiderato, carichi di sentimenti profondi e positivi.
Giovani ed anziani accomunati da un gesto umanitario e di fede verso un "fratello" morto ammazzato ma innocente.
Di fronte al mistero della morte (e Gesù si è fatto in questo simile a noi) nessuno dei personaggi perde la serenità della Fede e della Speranza.
Collocata nella Cappella Sacramento della Penitenza potrà suggerire già la gioia della Risurrezione a chi ha sperimentato la morte per il peccato.
(Autore: Pietro Caggiano)
*Dipinti dei Pennacchi e della Crociera
*Gli ornati dell'interno del Tempio - 1883/1884
*Il Silenzio di Gesù
del Pittore: Saverio Altamura
La storia di un quadro donato al Santuario: il suo autore, il pittore Saverio Altamura; il suo donatore, il filantropo Matteo Schilizzi e il giudizio artistico della famosa scrittrice Matilde Serao.
"S’avvicinava l’epoca di una Esposizione Universale a Parigi nel 1878. Pensai di fare un soggetto di Cristo. E scelsi il momento, che uno dei Scribi e Farisei a Lui, incatenato con funi, domandasse: Quid te ipsum putas?". È questa l’occasione, la motivazione e la scelta del soggetto fatta dal pittore Saverio Altamura, l’autore del quadro di cui presentiamo una bella riproduzione e la corrediamo con le consuete notizie di cronaca. Il Silenzio di Cristo, o Gesù tra i Farisei. Olio su tela: cm. 204 x 195, firmato, in basso a destra, S. Altamura – 1877.
Il quadro, prima di essere spedito a Parigi per la mostra, rimase esposto per breve tempo, da solo, in una grande aula dell’Accademia delle Belle Arti in Napoli. Matilde Serao in quell’ambiente freddo, misterioso, avvolto in struggente malinconia, ebbe occasione di ammirare il quadro. Fu avvinta da profonda commozione, il mistero del Cristo crudelmente ingiuriato, suscitò in essa uno straordinario sentimento di pietà e nel contempo di ribellione interiore magistralmente espressi in un articolo che scrisse di getto. Con qualche taglio, lo riproduciamo: è un giudizio sofferto, il turbamento incontenibile di un’artista sensibilissima al cospetto di un’opera d’arte. "È un episodio della passione di Gesù: gli leggono la condanna, dopo averlo flagellato.
Son ebrei - uno di essi, dalle spalle tarchiate, dalle braccia nerborute, stringe un flagello, indifferente se la discorre con certi altri; un secondo flagellatore sghignazza orribilmente, ed alza la verga quasi volesse continuare ancora. Alla destra di Gesù è un tale che gli strappa la tunica, a sinistra un altro che gli mostra con atto vero e vivace la condanna.
Tutta questa gente, sebbene animate da sentimenti diversi, come l’odio, il disprezzo, la noncuranza, ha il tipo ebreo spiccato: carnagione scura, bruna, sopracciglia vicinissime, sguardo falso; quello poi che ha in mano la carta è un fariseo, un ipocrita che si rivela: labbra strette, su cui corre l’insulto, fronte bassa, mano rugosa. Guarda il Nazareno con invidia e con ira; invidia per quella sua serenità pacata; ira perché si vede vinto; e indica la sentenza. Ma il Nazareno non lo ascolta, non lo guarda: pensa.
A che pensa? Forse agli sconfinati orizzonti della sua Palestina che non vedrà mai più, alle campagne ridenti, inondate dal sole, al lento volo delle azzurre tortore, alle limpide notti, al cielo stellato e profondo che tante volte ha interrogato con lo sguardo, al placido lago di Tiberiade: egli che amò tanto la natura, pensa forse a tutto questo. O forse gli vengono in mente i cari compagni delle sue peregrinazioni, quelli che lo compresero e amarono; forse ricorda la dolce madre che dovette abbandonare così presto; forse colei che lo adorò sopra tutti; e pensa al loro dolore? No. In quello sguardo vi è qualche cosa di più largo, di più vasto: quel Gesù pensa al suo ideale, s’inebria di esso e dimentica l’individuo nell’universo. La fatale notte del Getsemani, in cui il dubbio lo ha sopravvinto, in cui ha visto scomparire l’anima e la sua immortalità, in cui ha sofferto lo spasimo dell’uomo che vede spezzarsi il suo sogno, quella notte è lontana; egli crede in sé, crede negli altri; ancora pochi giorni ed egli morrà; ma il mondo sarà scosso, rivoluzionato dal più grande concetto umanitario: la libertà dell’anima.
Io non mi intendo di pittura e molto meno di disegno, non conosco le scuole antiche e moderne e mi affido al solo mio gusto; non so, quindi, se la luce sia giusta nel quadro di Altamura, se le figure del secondo piano siano proporzionate a quelle del primo, se le pieghe degli abiti siano armoniose e via discorrendo. Ma quando una pittura mi colpisce e mi commuove, quando io vi resto estatica lungo tempo davanti, dimenticando in quella sala vuota e fredda il mondo e la vita, quando la tela è illuminata da quel viso intelligente, pallido, buono, sofferente, quando in mezzo a quel gruppo di cretini, di ipocriti, di malvagi, vedo dominare viva e vera la persona del filosofo, del pensatore, del Maestro, io dico che il pittore è un artista, perché ha raggiunto il sommo dell’Arte.
Filosofo. Ho sognato su questa parola.
Ho riveduto un altro paese bello e fecondo, culla della civiltà umana, ho riveduta la campagna sterminata e la lunga sfilata dei portici marmorei, sotto cui passeggiava gravemente un vecchietto, circondato da molti giovani. Il vecchio anche parlava ad essi di libertà, di anima, d’immortalità e quelli lo ascoltavano e lo amavano: come il Galileo, il vecchio maestro distruggeva gli idoli antichi, annientava il passato e creava l’avvenire. Ma in Grecia ebbero paura come in Gerusalemme, carcerarono il vecchio e gli dettero la cicuta; ed il Nazareno dovette morire. Così, attraverso il tempo, avevano comune il sacrificio i due più grandi martiri dell'Ideale: Socrate e Gesù".
Il quadro fu esposto alla mostra. Cherles Blanc, un famoso critico d’arte francese, giudicò l’opera, "Una delle poche, venute d’Italia, che per il suo fare largo, per la sua esecuzione non leccata, ma saggiamente libera e spigliata, si allaccia alla grande arte". L’ Arcivescovo di Parigi, osservando l’opera ne rimase affascinato al punto da avviare trattative con l’artista per acquistarla; desiderava collocare il quadro nella maestosa Chiesa del Sacro Cuore in avanzata fase di costruzione sulla collina di Montmartre a Parigi.
Una fatale malattia condusse a morte l’illustre prelato ed in conseguenza le trattative furono interrotte; L’Altamura se ne tornò a Napoli portando con sé la grande tela che fu collocata, provvisoriamente, in un salone al piano terra del Villino Colonna in via Amedeo. E qui, attratti dalla fama e dalla notorietà acquisite dal quadro, giunsero, per ammirare il dipinto, la Contessa Costanza Gravina accompagnata da Matteo Schilizzi. Un signore milionario, greco di origine, banchiere, trasferitosi da Livorno a Napoli, per ragioni di salute.
Divenne benemerito per molteplici opere filantropiche, specie in occasione del terribile colera del 1884; fu anche proprietario del Corriere di Napoli, fondato da E. Scarfoglio. Lo Schilizzi fu vinto dal fascino misterioso emanato dalla figura di Gesù, in primo piano nel quadro, e decise, senza indugio, di acquistare il pezzo. Versò a Saverio Altamura, autore e proprietario dell’opera, lire diecimila ed in più, pagò lire duemila, per corredare la grande tela di una bellissima, imponente cornice.
Alcuni anni dopo, nel mese di giugno del 1887, Matteo Schillizzi, nel donare il quadro al Santuario di Pompei (soltanto per atto di ammirazione e di munificenza non devozionale), prometteva a Bartolo Longo "di venire a Pompei per ammirare i miracoli di civiltà che essi (Bartolo Longo e la Contessa) hanno attuato all’ombra di quelli della religione". S. Altamura, soddisfatto, commentò l’atto di donazione: "sicché questo quadro, che in principio pareva destinato ad un celebre Santuario, ha finito col decorare un altro non meno celebre del primo, e più caro, perché del mio Paese".
(Autore: Nicola Avellino)
(Da: Il Rosario e la Nuova Pompei – n° 2 Marzo-Aprile 1990)
*Il velo dinanzi al quadro dell'Immagine prodigiosa
Non ancora abbiamo potuto mettere a posto la tendina che deve coprire la Effigie della Madonna, perchè ci siamo fino ad adesso ingegnati di collocare il quadro ora in una postura ora in un'altra per farlo meglio apparire all'occhio dei visitatori.
In questo mezzo la nobile Principessa di Ottaiano, Evelina dei Medici, dama di onore di Sua Maestà la Regina, ce ne spediva una bellissima di raso bianco ricamata in oro per voto fatto alla Madonna.
Ai quattro angoli presenta un intreccio di ramoscelli che terminano in foglie ed in fiori, e nel centro di essa si vede il monogramma di Maria attorniato da dodici stelle: tutto ricamo in oro.
*La Cupola di Angelo Landi, uno sguardo verso il Paradiso
Nel 1940 Papa Pio XII incaricò il Delegato Pontificio Mons. Antonio Anastasio Rossi, Patriarca di Costantinopoli, di bandire un concorso, per scegliere l'artista cui commissionare l'affresco della Cupola del Santuario di Pompei.
Il vincitore fra i partecipanti fu Angelo Landi da Salò. Egli iniziò la sua carriera artistica a soli vent’anni esponendo a Brera il suo primo quadro intitolato "Affanni", Anche se in seguito ha realizzato altre opere, la sua fama era legata principalmente all’attività di ritrattista.
Un lavoro difficoltoso
La decorazione della cupola di Pompei era difficoltosa per la sua struttura architettonica, la cupola centrale si compone architettonicamente di due tamburi sovrapposti: l’inferiore è completato da una calotta forata al centro, il superiore è traforato da finestroni e coperto da doppia cupola con cupolino.
Considerata l’anomalia delle due sfere sovrapposte, il pittore Angelo Landi superò gli ardui problemi che gli si presentavano per le decorazioni con il doppio affresco completamente staccato dal resto della chiesa, ma a tale difficoltà si aggiunse anche quella di integrare le nuove decorazioni con quelle svolte precedentemente da Fermo Taragni di Redona (BG), che con l’aiuto dei suoi collaboratori, aveva decorato quasi tutta la Basilica, e anche la parte inferiore della cupola, con medaglioni con le effigie dei "quattro Santi Dottori della Chiesa che hanno cantato le glorie della Madonna": San Giovanni Crisostomo, Sant’Ambrogio, San Giovanni Damasceno, San Bernardo di Chiaravalle, alternati a composizione di carattere pompeiano.
Oggi questi medaglioni sono nella sacrestia del Santuario. Angelo Landi avrebbe dovuto concludere il lavoro iniziato da Fermo Taragni, ma preferì decorare l’intera superficie della cupola per assicurare un’opera armoniosa.
Il tema. La visione di San Domenico
Il tema affidatogli dal Delegato Pontificio fu La visione di San Domenico, lo stesso tema che Bartolo Longo affidò a Vincenzo Paliotti per la decorazione della cupola originaria.
È la visione del Paradiso che il Santo ebbe in dono dalla Vergine Maria, Regina del Cielo, quale protettrice su tutti i figli dell’Ordine domenicano e su tutti i devoti del santo Rosario.
La storia della visione è nota ai figli del santo fondatore. San Domenico, una sera, stando in preghiera, vide in estasi il Paradiso: qui il Signore era assiso in trono e vi era alla sua destra la Beata Vergine Maria. Dinanzi a Dio, il Santo, vedeva religiosi di tutti gli Ordini, ma per quanto si sforzasse di guardare non ne vide neanche uno dell’Ordine da lui fondato: Piangendo, nel constatare ciò, non ebbe il coraggio di avvicinarsi né al Signore, né alla Madre sua. Allora la Madonna gli fece cenno con la mano di accostarsi a lei, ma egli non si mosse finché non fu il Signore a dirgli di avvicinarsi e chiedendogli il perché di tante lacrime. Domenico affermò che poteva osservare religiosi di tutti gli Ordini, ma del suo nessuno.
Allora il buon Dio gli chiese se desiderava vedere il suo Ordine e appoggiando una mano sulla spalla della Beata Vergine si rivolse di nuovo a Domenico dicendogli che il suo Ordine lui l’aveva affidato alle cure amorevoli della Madre sua. E dicendo questo la madonna allargò il mantello, del colore dei zaffiri, e sotto di esso egli vide una moltitudine immensa dei suoi frati. Visto tutto ciò, si inginocchiò e la visione scomparve.
L’artista pensò di rappresentare la Visione di San Domenico, raffigurando nella prima cupola una schiera di santi, angeli e beati, che si protraggono verso la Madonna raffigurata nella cupola superiore. La Vergine si sarebbe dovuta innalzare in un pulviscolo d’oro "di sol vestita", come canta il Petrarca, nel componimento 366 del suo Canzoniere, trascinando dietro il suo manto, i fedeli e i propagatori del Rosario.
L’artista pensò di servirsi dell’anomalia architettonica della doppia cupola per rappresentarvi un unico cielo, senza inserire nessuna membratura architettonica o apertura decorativa. Giuseppe de Mori ci spiega che il referente a cui si ispirò l’artista fu la cupola del Duomo di Parma, che Antonio Allegri, detto il Correggio, decorò.
Il capolavoro è composto da 327 figure in 507 mq. Di superficie dipinta. Le figure dovendo essere osservate da 57 mt. Di distanza sono alte 3 mt. E mezzo a quattro.
Il 3 ottobre 1942, quando vennero inaugurati gli affreschi di Angelo Landi da salò, il popolo esclamò "Madonna! Quello è un Paradiso".
Il pittore rappresentò nella cupola inferiore un corteo di Santi e Beati ed in posizione centrale collocò san Domenico.
La descrizione di un autentico capolavoro
Guardando San Domenico e muovendoci dalla sua sinistra incontriamo Santa Caterina de’ Ricci, nobile fiorentina, che regge davanti al suo rapito il Crocifisso. Accanto alla stigmatizzata fiorentina è inginocchiata la Beata Imelda Lambertini di Bologna, con le braccia protese al cielo. Raccolto in preghiera, segue San Pio V, il Papa di Lepanto. Sotto di lui, lungo il tamburo sottostante, Leone XIII e Pio X, i due Pontefici tanto benemeriti del Santuario di Pompei. Sullo stesso piano vi sono raffigurati gli orfanelli e le orfanelle delle opere della carità cattolica, che vivono all’ombra del Santuario, con il loro Fondatore, il Beato Bartolo Longo e un fratello delle scuole Cristiane, il Patriarca Antonio Anastasio Rossi e il suo Vicario, il Vescovo Vincenzo Celli.
Al di sopra vi è dipinta la principessa Maria Clotilde di Savoia Napoleone, del Terz’Ordine domenicano, inginocchiata presso il suo scudo, con le mani giunte intrecciate al Rosario, nel suo abito vedovile.
La "Santa di Moncalieri", com’è denominata la principessa Savoia, pare lì a preparare il gruppo delle tre regine. Prima delle cosiddette "tre regine", è la Beata Giovanna del Portogallo, figlia del re Alfonso, che rifiutò la corona del figlio di Federico III per essere fedele sposa di cristo. Segue la Beata Margherita d’Ungheria, della stirpe di re Santo Stefano, rinunciò al trono di Boemia e morì nel monastero fabbricatole dal padre Bela IV in un’isola del Danubio presso Buda. Genuflessa e rapita in estasi, la Beata Margherita di Savoia, monaca domenicana e fondatrice del monastero domenicano di Alba, dove si spense nel 1464. Ai piedi delle rispettive sante Regine vi sono tre corone che araldicamente le caratterizzano.
Inginocchiati, anch’essi, in orazione vi sono San Pietro Martire di Verona, con la penna che fu la sua spada contro i Manichei eretici. Il Beato Raimondo da Capua, confessore di santa Caterina da Siena, Maestro Generale dei Domenicani, riformatore dell’Ordine dei Predicatori. San Raimondo di Peňafort di Barcellona, confessore di Papa Gregorio IX, a terra il libro dei Decretali, saggio della sua sapienza e della sua cultura.
Incontriamo poi i giganti del Rosario: San Tommaso d’Aquino, Sant’Alberto Magno, Sant’Agnese da Montepulciano, Santa Rosa da Lima e Santa Caterina da Siena: Il Dottore Angelico San Tommaso d’Aquino con in mano un volume aperto a simboleggiare la sapienza dell’autore della Somma Teologica, sul suo petto brilla il Sole che illuminò il suo tramonto terreno e gli accese i primi raggi della vita celeste.
Accanto a lui, nella sua austerità episcopale, Sant’Alberto Magno spiega le carte della sua dottrina. Dopo di loro Sant’Agnese da Montepulciano, inginocchiata in preghiera, mentre dei fiori sbocciano ai suoi piedi e il suo mento si costella di croci. Santa Rosa da Lima, primo fiore della santità dell’America Latina, incoronata di rose, appare il simbolo incarnato del Rosario.
Santa Caterina da Siena, sembra rapita da un’estasi, con in mano un candido giglio, meditabonda con il libri delle sue Lettere che stringe sul fianco.
Sul tamburo sottostante vi sono raffigurate la Carità e la fede. Le due virtù sono compendio di tutte le Opere di assistenza sociale fiorite dalle fede che brilla dalla vergine del Rosario, per poi propagarsi a tutti i fedeli.
Oltre a leone XIII e Pio X, Angelo Landi in solo quattro giorni ha dipinto magistralmente le figure di Pio XI e di Pio XII.
Pio XI è ritratto genuflesso sulla soglia della Porta Santa, rivestito degli abiti pontificali, la croce astile nella mano destra, nella sinistra l’olivo, offerta per la pace del mondo.
Pio XII, eretto nella sua figura ieratica, candido nell'immacolata talare, apre le braccia e le distende nell'atteggiamento della sua universale paternità.
L’azione che nell’affresco inferiore appare statica e riposante, nella calotta superiore si apre potente e suggestiva. La Regina del Rosario trionfa e nel volo verso Dio spiega il manto come un’immensa vela, e nel suo turbine accorrono, attratti verso di lei, cherubini e serafini, schiere di religiosi e religiose e terziari dell’ordine domenicano, tra cui Simone di Monfort, vincitore degli eretici Albigesi, recante il vessillo delle Crociate. La polmonite contratta durante i due anni di lavorazione, portò l’artista ad allontanarsi varie volte da Pompei.
La morte colse l’insigne pittore nella città natale, Salò. Era il 16 dicembre 1944 mentre lavorava attorno ad una "Via Crucis", un estremo viatico di fede per lui che forse non aveva pensato al cielo se non nel periodo in cui dipingeva il suo capolavoro nel Santuario di Pompei.
L’impegno dell’Arcivescovo, Mons. Carlo Liberati, perché il tesoro d’arte e di fede tornasse all’antico splendore
Oggi questo capolavoro di arte è ritornato ad aprire il suo squarcio di paradiso per innalzare lo spirito di ogni pellegrino che giunge a Pompei verso la visione della gloria dei santi.
Grazie all’interessamento e allo zelo del nostro Pastore, S. Ecc.za Mons. Carlo Liberati, che da quando ha iniziato il suo ministero pastorale in questa Valle di Pompei continua attraverso la predicazione e l’esempio ad indicarci la strada per il cielo, il tesoro d’arte di questo tempio è ritornato a parlare con i suoi colori, con i suoi simboli, con le sue immagini della gloria di Maria e del Cristo suo Figlio e Signore.
(Autore: Riccardo Pecchia)
Aveva una foto tra le mani e indicava alla figlia questa o quell’immagine. Incuriositi, fu avvicinata e raccontò una storia sorprendente.
Nel 1939, ancora undicenne, Giovanna Vecchioni posò per il pittore, che la immortalò nella sua opera, conclusa nel 1941.
A ricordo di quell’incontro, la signora ha una dedica di Landi dietro la foto che la ritrae: "A ricordo di una posa gentile, un gesto gentile".
*La Custodia - Tabernacolo o Sacro Ciborio dell'Altare del Rosario
È il di questo pannello bronzeo (cm 200 x 110) ideato dal Comm. Gian Paolo Quinto e modellato da Cesarino Vincenzi. Ma è anche la sintesi della vita di Rosina Quinto Bergonzoni. Il Comm. Gian Paolo, con pensiero gentile, ha voluto donare quest’opera come ex voto ed in ricordo dell’attività di insegnante della propria consorte, con l’augurio che essa rappresenti l’ideale della classe per i nostri alunni.
Scrive Mario Nebbiai: "È merito dell’Artista che ha saputo infondere nei protagonisti, immagini di pace interiore come le montagne <<sorgenti dalle acque>>!
E questa pace è in ognuno dei presenti, anche se per un attimo appena distolta dall’ingresso dalla <<comune>> di due allieve giunte in ritardo e accompagnate dalla severa, ma materna, figura del custode.
Ma, su tutti si taglia, ed è giusto che sia così, la figura della <<maestra>>, pacata e sicura: quel libro aperto, ma abbassato, alludendo al momento della riflessione, sintetizza l’afflato con gli allievi, quasi una sintesi di pensiero che aleggia sull’Opera".
Un’Opera figurativa veramente notevole che sarebbe bene restasse nel tempo, posta ad un’altezza dal suolo ben studiata, e trovasse degna parete a riceverla.
Perciò abbiamo pensato alla nostra scuola presso l’Istituto Sacro Cuore con i suoi 400 alunni; frequentano ancora le elementari, ma forse non è male presentare certe immagini fin dalla tenera età.
(Autore: Pietro Caggiano)
*La Vôlta Maggiore del Santuario
In quel medesimo di 6 Maggio si offrirà allo sguardo dei visitatori compiuta di tutto punto la Volta Maggiore del Santuario.
*Le quindici Lampade perpetue innanzi al trono di Maria
Anche i più semplici avvenimenti che riguardano questo Santuario di Pompei, investigandone le recondite ragioni, hanno un misterioso significato, diretto sempre più all’accrescimento del culto e della venerazione per la Vergine SS. del Rosario.
*Maria Assunta nella gloria del Paradiso
Santuario di Pompei. Maria Assunta nella gloria del Paradiso, affresco di Arzuffi
*Nuova porta di bronzo dedicata a B.L. e alla Contessa
*Statua di Francesca Saverio Cabrini
Dal porto di Le Havre, in Francia, a New York e, poi, in Nicaragua, a New Orleans, a Panama, a Buenos Aires, nella capitale inglese Londra e a Liverpool.
Sono solo alcune delle tappe dei viaggi missionari di Santa Francesca Saverio Cabrini, canonizzata da Papa Pio XII nel 1946 e riconosciuta, nel 1950, "celeste patrona di tutti gli emigranti". Una santa attualissima, cui tanti guardano in un tempo, com’è quello d’oggi, in cui le statistiche rilevano interi popoli in movimento.
Qualcuno parla di 240 milioni di persone che, nel mondo, a causa delle guerre, della miseria, dell’assenza di lavoro, abbandonano il proprio Paese per trasferirsi in quell’altrove dove costruire una vita diversa. E Santa Francesca non viaggiava nella prima classe dei transatlantici, ma su umili navi che percorrevano l’Oceano impiegando decine di giorni per raggiungere la meta.
Lei, con alcune compagne, Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, la congregazione di religiose che aveva fondato nel 1880. E viaggiava insieme agli emigranti.
Per usare un’espressione che Papa Francesco ha spesso pronunciato con riferimento ai sacerdoti: era una suora con "addosso l’odore delle pecore". La sua terra di missione era il cuore spezzato da chi partiva lasciando a casa ogni cosa se non i propri averi che riusciva a chiudere in una valigia stipata di abiti e ricordi.
Il 22 dicembre ricorrono i cento anni dalla morte di santa Francesca, che il Signore chiamò a sé mentre era in viaggio verso Chicago, nel 1917. Era già ammalata, minata nella salute dai luoghi attraversati, spesso malsani e paludosi, eppure indomita serva di Dio e degli uomini.
La religiosa aveva una particolare devozione per la Madonna di Pompei. Non a caso, in una nicchia prima dell’ingresso nella Basilica, il 7 maggio 1970 fu collocata una statua, opera dello scultore Domenico Ponzi, che la raffigura con una lampada tra le mani, simbolo della fede che arde.
Al suo fianco è un giovanissimo emigrante che scioglie la corda che tiene ormeggiata la nave nella colonna del molo, ultimo legame con la terraferma e la patria, in basso è l’iscrizione: "Santa Francesca Saverio Cabrini visitò il Santuario l’11 marzo 1893 per sciogliere il voto fatto durante la terribile traversata da New York al Nicaragua.
Tornò nel luglio 1898". E poi la frase finale, tratta dagli scritti di Madre Cabrini: "A Pompei trovasi la Madonna tanto buona": Dall’epistolario della Santa si evince che i viaggi nella città mariana erano anche motivati da altre grazie ottenute. L’8 febbraio 1893, scrive a Suor Cherubina Ciceri, direttrice della Casa di Granada, in Nicaragua: "Per la metà di marzo, io sarò già stata a Pompei a ringraziare la Madonna del miracolo della tua guarigione avendole promesso che entro un anno vin sarei andata. Sì, figlia mia, tu sei viva per la Madonna, vedi quindi di essere sua vera e fedele figlia".
Santa Francesca chiede e la Madonna risponde in modo concreto, proteggendo Granada, sempre in Nicaragua, dalla guerra: "Io confido – scriverà il 7 luglio 1893 alla stessa consorella – nella gran Madre e già promisi in nome vostro che tornerò a visitarla a Pompei e le faremo presto la cappellina in giardino per ottenere che si distenda la pace in tutta codesta Repubblica".
Alla Vergine che – come dice ancora Madre Cabrini – "par mi abbia promesso larghi aiuti per sempre all’Istituto", la Santa affida le sue suore: "Pregate sempre di cuore la Madonna di Pompei – le esorta – vi aiuterà in modo meraviglioso".
(Autore: Giuseppe Pecorelli)